Già dal punto di vista scientifico, il concetto di “razze” umane è errato e non bisognerebbe utilizzarlo; a maggior ragione, poi, se pensiamo alle conseguenze nefaste che ha provocato durante i secoli. Bene ha fatto dunque il recente G20 Interfaith forum, tenutosi il 12 settembre 2021 a Bologna, a chiedere di cancellare la parola «razza» dalle Costituzioni: nella nostra, essa compare al comma 1 dell’art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»); in un contesto certo, che intende contrastare ogni forma di discriminazione, ma anche in casi come questo la scelta del termine «razza» è da rivedere, giacché costituisce, di fatto, un involontario e inopportuno riconoscimento dell’esistenza di razze umane. Inoltre l’appello del G20 è oggi come oggi più che mai urgente, considerando gli estesi e preoccupanti sintomi di recrudescenza di intolleranze e razzismi.
Ciò detto può essere utile, da una prospettiva cristiana, tornare alle radici del Vangelo: termine che – non tutti lo sanno – deriva dal greco Euanghélion e significa «buona notizia». I cristiani, infatti, sono coloro che individuano in Gesù di Nazareth il «Cristo» (dal greco christòs, «unto», mentre in ebraico è mašīaḥ, da cui «messia»). Nella Bibbia, l’«unzione» (con olio) indica la consacrazione di qualcuno da parte di Dio per dedicarlo suo servizio: l’unto è dunque il «servo» di Dio, colui che compie la sua volontà. E i cristiani, per l’appunto, ritengono Gesù l’«unto di Dio», il «servo di Dio» delle profezie anticotestamentarie (celebri, fra tutte, soprattutto quelle contenute in varie parti del libro di Isaia): egli è colui che, quale «luce delle nazioni», reca «la buona novella agli umili» e «la giustizia alle nazioni».
L’universalità del messaggio di Gesù (il) Cristo emerge già da diversi contesti delle testimonianze dei quattro evangelisti e culmina, nei brani finali di Matteo, Marco e Luca (rispettivamente ai capitoli 28, 16 e 24), con l’incarico assegnato ai discepoli di andare «per tutto il mondo» a portare la buona notizia «a tutti i popoli, a tutte le genti». Coerentemente, il libro degli Atti degli Apostoli (che continua, per alcuni decenni, la storia dei Vangeli dopo la morte, risurrezione e ascensione di Gesù) descrive – a partire da Gerusalemme, e dal principio che Dio «non usa alcuna parzialità e in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito» – diversi sviluppi della divulgazione del Vangelo in molte parti del mondo, con l’obiettivo che «tutte le genti cerchino il Signore» (Atti 10:34-35, 15:17).
D’altronde, allo stesso patriarca Abramo (capostipite dell’Israele biblico, il popolo nel quale Gesù, discendente di Abramo, nacque) era stato promesso, come ricordò l’apostolo Paolo nelle sue Lettere, nel Nuovo Testamento: «Tutte le nazioni saranno benedette in te» (Galati 3:8, che riprende Genesi 12:3). Paolo aggiunse che in Cristo, progenie di Abramo, «non c’è distinzione fra giudeo o greco, circonciso o incirconciso, barbaro o scita, servo o libero, maschio o femmina, perché uno stesso è il Signore di tutti, generoso verso tutti quelli che lo invocano» (Romani 10:12 e 15:11, Galati 3:28, Colossesi 3:11); inoltre, riguardo al rapporto fra ebrei e non ebrei, egli scrisse che con il messaggio del Vangelo Dio volle abolire «il muro di separazione» (Efesini 2:14 – e quanti «muri» da abolire ci sono, ancora oggi…). Infine, citando il Salmo 117:1, esortò: «Lodate il Signore, tutte le genti, lo celebrino i popoli tutti» (Romani 15:11).
Nei fatti (che, alla fin fine, contano molto più delle parole) il messaggio di Cristo aveva già abrogato, oltre duemila anni fa, ogni forma di razzismo. Ma in troppi casi il mondo attuale è indietro di un paio di millenni rispetto al Vangelo. Proviamo a metterci al suo passo!
Valerio Marchi