La casa del lutto e la casa della festa

«È meglio andare nella casa del lutto che nella casa della festa, perché quella è la fine di ogni uomo e chi vive vi potrà riflettere» (Qohelet 7:2). Diceva così un saggio vissuto oltre duecento anni prima di Cristo, le cui riflessioni sulla condizione umana ci sono state tramandate dal libro dell’Antico Testamento che porta il suo nome (in alcune versioni della Bibbia è chiamato “Ecclesiaste”, che rende l’ebraico “Qohelet”, ovvero qualcuno che si rivolge ad una assemblea, ad un uditorio).

Qohelet ricordò altresì che ogni essere umano lascia prima o poi questo mondo «nudo com’era venuto, com’era uscito dal grembo di sua madre» (5:15). Egli echeggiò il detto di Giobbe 1:21: «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò: il Signore ha dato, il Signore ha tolto…». E Giobbe, a sua volta, aveva ripreso l’eterno principio: «Tu sei polvere, e in polvere ritornerai» (Genesi 3:19).

Nel Nuovo Testamento, l’apostolo Paolo espresse il medesimo concetto: «Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portarne via». Lo scopo era di esortare alla sobrietà: «Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, saremo di questo contenti» (1ª Lettera a Timoteo 6:7-8).

Ricordarci dei nostri cari che non ci sono più va bene, ma attenzione: l’enfasi dovrebbe essere posta prima di tutto sulla nostra condizione, su di noi che ancora siamo qui. Dovremmo riflettere sulla nostra vita, sul nostro modo di essere e di comportarci, sui nostri valori e obiettivi, su ciò a cui diamo veramente peso, su ciò che lasceremo come eredità morale e spirituale. E, ovviamente, sul nostro rapporto con Dio.

Un brano del Vangelo di Luca (9:59-60) riferisce che un giorno Gesù invitò un uomo dicendogli: «Seguimi!», ma quel tale rispose: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». Richiesta comprensibilissima, certo, ma se il Qohelet sapeva provocarci, ebbene, Gesù sapeva addirittura scandalizzarci. La sua risposta fu infatti: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, ma tu va ad annunciare il regno di Dio». La frase appare sulle prime enigmatica. Forse Gesù non apprezzava il desiderio di un figlio che intendeva dare una degna sepoltura e il dovuto onore al proprio padre defunto? No, non è questo il punto…

E allora, che cosa volle dirci il Signore? Evidentemente egli sapeva che, spesso, ricordarsi dei defunti, anche se devotamente e affettuosamente, può diventare un modo per pensare più a loro che a noi stessi, alle nostre responsabilità, al nostro rapporto con Dio. Ma, se sbagliamo prospettiva, allora i veri morti siamo noi («lascia che i morti seppelliscano i loro morti…»): morti perché di fatto lontani da noi stessi, da Dio, dall’unica cosa che conta («che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e poi perde la propria anima?», disse ancora Gesù in Matteo 16:26). Lontani anche dal senso del peccato (parola fuori moda, ormai…) e da ogni stimolo di ravvedimento e conversione, scivolando sconsideratamente verso la nostra fine terrena.

Quando il «figliol prodigo», dopo aver sperperato tutto, «tornò in sé», finalmente si pentì e tornò al Padre, che di lui disse: «Era morto ed è tornato in vita» (Vangelo di Luca 15:32). Fisicamente il figlio era rimasto sempre in vita, ma dentro di sé aveva avuto bisogno di rinascere, perché era morto. Il vero problema è sempre quello di essere spiritualmente vivi mentre siamo ancora in questo mondo, e la «casa del lutto» deve aiutarci a riflettere su noi stessi, prima che a piangere sui (fisicamente) morti.

Gesù non ci richiede di essere tristi né pessimisti, anzi, desidera che siano sereni e allegri nella speranza che abbiamo riposto in Lui, ma, allo stesso modo, ci esorta affinché la nostra vita non sia improntata alla ricerca della «casa della festa» (o della semplice distrazione), ma che le inevitabili occasioni che la vita ci prospetta di piangere sui morti diventino delle opportunità di cambiamento interiore.

Valerio Marchi

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