«Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»: è la celebre frase di Gesù, riportata nei Vangeli di Matteo 22:15-22, Marco 12:13-17 e Luca 20:19-26, che tutti abbiamo prima o poi pronunciato e sentito pronunciare, peraltro spesso fuori luogo, alla stregua di un proverbio popolare e in modo banalizzante. Ma il principio espresso è serissimo e decisivo.
Di fronte al tentativo di comprometterlo con il potere e con il popolo, Gesù chiarì che gli ambiti dell’autorità umana e dell’autorità divina vanno tenuti distinti, individuando il giusto principio della dipendenza da Dio e, di conseguenza, la giusta indipendenza di fronte allo Stato: il problema si pone per il credente, è chiaro, e in primo luogo per chi si fa guida religiosa di altri.
A ben guardare, poi, Gesù non ha messo Dio e Cesare sullo stesso piano, perché l’accento cade sulla seconda parte della frase: dare a Dio quel che è di Dio, ovvero ribadire in ogni contingenza politica i diritti di Dio. Dobbiamo rispettare sia l’autorità terrena sia quella celeste, ma la seconda, in caso di incompatibilità, deve sempre prevalere.
Gesù dunque non ha disconosciuto il potere terreno, secolare; anzi, ha precisato che se esso esiste è perché Dio permette che sia così, altrimenti nessuna società sussisterebbe (altro discorso è la qualità di quel potere, che riguarda tutti, credenti oppure no). Il Vangelo di Giovanni 19:11 riferisce questa frase rivolta dal Signore a Pilato: «Tu non avresti alcun potere su di me se non ti fosse dato dall’alto». Un concetto analogo sarà poi ribadito nel Nuovo Testamento sia nella Prima Lettera di Pietro (2:13-17) sia nella Lettera di Paolo ai Romani (13:1-7), che esortano i cristiani a ubbidire alle autorità umane stabilite. Tuttavia, nessun potere politico, civile o d’altro genere può sostituirsi alla coscienza religiosa delle persone.
Lo stesso Gesù avrebbe potuto accordarsi con Erode Antipa, con Pilato e con il Sinedrio, piegandosi alle loro mire, alle loro concezioni della vita e del potere; tuttavia, di fronte all’esigenza di rimanere fedele al Padre, egli andò fino in fondo e affrontò la croce. «Per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità»: così disse, secondo il Vangelo di Giovanni 18:37, al governatore romano. D’altronde, qualche tempo prima anche Giovanni il Battista si era rifiutato di fare il giullare di corte di Erode Antipa, del quale anzi aveva denunciato corruzione e immoralità, rimettendoci la testa (l’episodio è narrato sia in Matteo 14.1-12 che in Marco 6:14-29 – un accenno anche in Luca 9:7-9).
Una decina di anni dopo Erode Agrippa I, re di Giudea, acclamato dal popolo come se fosse un Dio, nel suo delirio di onnipotenza fece uccidere l’apostolo Giacomo, anch’egli fermo senza indugi nella sua fede. La vicenda è narrata nel dodicesimo capitolo degli Atti degli Apostoli, dal quale sappiamo altresì che agli esordi della comunità cristiana di Gerusalemme gli apostoli Pietro e Giovanni, ai quali era stato intimato da un tribunale umano di tacere, di non annunciare più il Vangelo, avevano risposto: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (5:29 – vedi anche 4:19) e per questo subirono percosse e ingiurie.
Nel corso dei secoli, poi, ci sono sempre stati quanti, in frangenti anche drammatici, sono diventati strumenti dei poteri terreni. Altri invece (e non pochi) hanno continuato ad affermare la propria libertà, per preservare ad ogni costo la coerenza rispetto a Dio, per non essere complici di ciò che Egli aborrisce. L’argomento è sempre, sempre di attualità.
Valerio Marchi