Le molte distrazioni e i ritmi incalzanti imposti dal nostro stile di vita spesso ci impediscono di riflettere su temi profondi che riguardano il fine della nostra esistenza. Basti pensare a domande quali: “Che senso ha la mia vita? Quali sono i miei obiettivi? Dove andrò dopo la morte?”. Un antico re d’Israele, Salomone, figlio di Davide, circa tremila anni fa ci ha trasmesso le sue considerazioni (scritte nel libro dell’Ecclesiaste), che sono vere e proprie perle di saggezza, valide per gli uomini di ogni tempo e luogo.
Qual è lo scopo della nostra esistenza?
Per molte persone l’obiettivo primario è il piacere dei sensi, il divertimento: tanti, infatti desiderano ad esempio accumulare denaro, oppure sperano di vincerlo al gioco, per potersi comprare una casa o la più lussuosa automobile, possedere vestiti e gioielli di pregio, viaggiare per il mondo, “godersi la vita” con sempre nuove o nuovi amanti…
Ebbene, una volta realizzati tali desideri, scopriranno di non essere pienamente appagati, perché, a pensarci bene, ogni “piacere” ne richiede sempre uno nuovo, visto che dura solo per un po’ di tempo e che, comunque, l’uomo tende a non accontentarsi mai di ciò che ha. Per chi vive in tal modo, gli interrogativi esistenziali resteranno senza risposta!
Il re Salomone ha vissuto le esperienze più intense e svariate che si possa immaginare e non si è negato alcun tipo di soddisfazione, al punto da non avere più niente da chiedere. Dopo avere affermato che i piaceri della vita sono “vanità”, cioè sono effimeri e non sono “sostanziosi” per il nostro spirito, dà il più prezioso dei consigli: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell’uomo» (Ecclesiaste 12,13).
Il fine della nostra vita è proprio quello di cercare ciò per cui siamo stati creati: l’incontro con Dio. Egli ci ha donato la sua parola (la Bibbia), contenente tutto ciò che ci serve per trovarlo, conoscerlo, amarlo e seguirlo.
Come si può dare il giusto senso alla vita?
Bisogna acquisire la consapevolezza che il nostro cammino terreno prima o poi finirà e impostare di conseguenza il nostro rapporto con Dio e con il prossimo: «È meglio andare in una casa in lutto, che andare in una casa in festa; poiché là è la fine di ogni uomo, e colui che vive vi porrà mente» (Ecclesiaste 7,2). Per chi desidera il divertimento sempre e a tutti i costi, per chi fa gli scongiuri al solo sentire la notizia di una persona ammalata, per chi vuole vivere lontano dalle situazioni dolorose della vita, questo messaggio è pura follia. Per chi, invece, desidera imparare a crescere spiritualmente, anche attraverso la sofferenza, il dolore e la coscienza della morte, si tratta di una grande opportunità.
Avete notato dai discorsi che si fanno in occasione di un funerale, come le persone sono colpite dalla miseria umana, dal senso di impotenza di fronte all’ineluttabilità della morte? Naturalmente non dovrebbe servire un funerale per pensare a tali cose, ma questi sono i momenti in cui inevitabilmente lo si fa.
L’importante è che dopo le belle considerazioni, e i momenti di intense emozioni, poi seguano i fatti, cioè una vita che cambi, con nuovi obiettivi e nuove prospettive, le prospettive di chi vuole guardare al di là del “mangiare, bere e divertirsi”, cercando, piuttosto, di ubbidire a Dio per poterlo un giorno incontrare e godere per sempre della sua presenza.
«Abbiamo lo sguardo fisso non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono, poiché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne» (2ª lettera di Paolo ai Corinzi 4,18).
Andrea Miola